lunedì 22 ottobre 2018
domenica 7 ottobre 2018
IL POETA E LO SCRITTORE: IL 68 AL DRAMA TEATRO
Preziosa serata quella che ci ha offerto ieri Drama Teatro
nell’ambito della rassegna sul 68. Il 68 e la letteratura, un incontro con due
eminenti letterati modenesi, Walter Siti scrittore e Alberto Bertoni poeta,
entrambi dottissimi professori di letteratura italiana all’università, Walter
in pensione, Alberto ancora attivo. Walter cita gli eventi caratterizzanti quel
mitico anno e i libri più importanti che furono pubblicati e butta lì alcuni
spunti di riflessione sull’eredità del 68 con quella lungimiranza
interpretativa che solo possiedono i veri sapienti. Alberto ci fa una
condensatissima e appassionata lezione sulla poesia, prima, attraverso e dopo
il 68. Entrambi con un certo sguardo amaro sui tempi correnti.
Starei ad ascoltarli per ore perché sono in presenza di due
monumenti. Uno è il maggior scrittore italiano vivente e ammetto che sono
talmente affascinata dalla sua scrittura che potrebbe dire qualunque cagata che
l’accoglierei con un’apertura mentale che raramente riservo agli intellettuali
che ascolto. L’altro è un vero poeta e cultore della poesia, la musa che più
amo e desidero e che più si nega alla mia scrittura.
Che fine ha fatto la poesia dopo il 68? In questa delegittimazione
dell’intellettuale colto e non militante, anche il sublime è andato sotto
processo e persino Montale, dice Bertoni, con Satura, “merdifica” la sua
poesia perché non sa più cosa dire. Su questo, sulla “merdificazione” del
linguaggio poetico, su uno sguardo ripiegato sul reale che si sente in dovere
di rinunciare alla complessità della forma, sono d’accordo entrambi, il poeta e
lo scrittore. C’è quindi una rottura nel linguaggio, anticipata dalla
neoavanguardia del Gruppo ‘63, la stessa che ha creato, secondo Bertoni, quella
frattura fra produzione e ricezione che ancora devasta la poesia: in Italia ci
sono un milione e mezzo di persone che dichiarano di avere nel cassetto o dato
alle stampe qualche verso di “poesia”, ma sono al massimo 2.000 i lettori che
comprano libri di poesia.
Devo dire che la cosa non mi stupisce: in un Paese dove
tutti si improvvisano specialisti di tutto e dove essere colti, avere studiato,
è ormai, nel sentire comune, un disvalore o comunque qualcosa che non merita
nessuna considerazione, dove anche il più ignorante e sprovveduto può ambire a
diventare ministro, non sorprende che chiunque possa ritenersi in grado di
scrivere poesia.
Mi sale una certa irritazione se penso alla difficoltà che
provo quando cerco di scrivere un solo verso poetico, all’impressione che ho di
riuscire solamente a sfiorarla questa musa ritrosa e permalosa che con fatica
si lascia avvicinare, e al fatto che invece sono circondata da una massa di
narcisi ignoranti e inconsapevoli che si autodefiniscono poeti solo perché
sanno mettere insieme qualche pensierino sulle emozioni, altra categoria abusata
del nostro tempo.
Mi sale l’irritazione quando nel dibattito che segue sento
diversi nostalgici incanutiti esaltare le “conquiste” del loro 68 o, meglio,
del 77: la rivoluzione femminista, la rivoluzione sessuale, lo statuto dei lavoratori,
il divorzio, l’aborto, l’antiautoritarismo. Mi sale l’irritazione perché penso
che io, che sono entrata al liceo Muratori nel 1980, mi sono beccata in pieno
tutta l’onda reazionaria provocata dalle proteste antiautoritaristiche,
antibaronali, antielitarie di questi giovani rivoluzionari che mi hanno
preceduto di una generazione. Il liceo è stato per me un lager perché l’eco
delle loro minacce, delle loro violenze, era ancora ben presente nelle orecchie
delle vecchie cariatidi che avevano sentito tremare la loro cattedra negli anni
della contestazione ed esse reagirono alla paura restaurando l’ancien régime.
Walter ci dice, riprendendo un concetto marxiano, che un
movimento di protesta non porta a nulla se incide solamente sulla vita del
singolo ma non incide sulle strutture. Di quella parola tanto cara ai
sessantottini, “rivoluzione”, del lessico che ad essa si richiamava,
“cambiamento”, “rivolta”, “cambiare tutto” e delle sue derivazioni ideologiche,
Walter Siti dice che oggi si sono appropriati Salvini e Di Maio, i quali però
usano sì il linguaggio della rivoluzione, ma la vera rivoluzione – quella
contro la finanza che regola il mondo- non la fanno. Si sono impadroniti della
parola rivoluzione, ma appena i mercati ci porteranno sull’orlo del baratro, i
nostri due spavaldi vicepremier si ritireranno con la coda tra le gambe come
tutti i loro predecessori o nel baratro ci faranno affondare insieme a loro.
Lui è Siti, il premio Strega per Resistere
non serve a niente, romanzo che ci svela l’agghiacciante cinismo con cui
l’alta finanza regola le sorti del mondo e contro cui siamo tutti inermi.
Siti conclude il suo intervento dicendo che l’unica eredità,
l’unica rivoluzione del 68 riuscita in Italia è la rivoluzione femminista. E
anche su questo io ho dei dubbi se considero che il modello femminile che la
cultura di massa propone oggi alle mie studentesse è Chiara Ferragni o, in
politica, la Boschi che finisce sulla copertina di Maxim. Ho dei dubbi se penso
a Verona città che rigetta ufficialmente l’aborto o alla piaga dei femminicidi
che affligge il nostro Paese.
L’anno scorso, quando insegnavo in una scuola con un’utenza
quasi esclusivamente maschile, avvertivo il dovere morale di educare ragazzi
che diventino futuri uomini che rispettano le donne; quest’anno, in un liceo
frequentato per due terzi da ragazze, sento il dovere di educare ragazze che
diventino future donne che si fanno rispettare dai maschi. La rivoluzione
femminista non è finita e il patriarcato gioca ancora un ruolo importante sulla
condizione di minorità femminile, sulle discriminazioni di cui le donne sono
ancora oggetto, nella gestione del potere, nelle guerre che ancora oggi gli
uomini combattono in giro per il mondo.
Che effetti liberatori ha avuto il 68 sulle mie studentesse
confuse e apparentemente emancipate? Si tratta di figlie di madri veramente
liberate o solamente emancipate nei diritti sulla carta? Davvero in Italia il
modello femminile che si è imposto è quello predicato dalle pasionarie del 68 e del 77? Walter
ammette che, in effetti, anche nelle università occupate del 68 le ragazze
erano considerate gli angeli del ciclostile: i maschi pensavano, le femmine
replicavano.
Mi chiedo poi se l’attuale esaltazione dell’incompetenza al
potere, la delegittimazione del sapere che porta i nostri governanti e i loro
elettori a denigrare esperti, scienziati, studiosi, non sia anch’essa un po’
frutto dell’onda lunga del 68, della lotta contro chi sedeva in cattedra. Un
odio per le cattedre che squalifica la classe docente, il sapere, tutto ciò che
è cultura, e che oggi si affaccia dal balcone di Palazzo Chigi. Walter è
d’accordo con me, meno lo sono alcuni amici ex-settantasettini presenti.
Qualcuno mi dice che la scuola come ascensore sociale è frutto
del 68. Mah… Se io non mi spezzo la schiena nei campi è perché mio nonno
mezzadro, anni prima della “rivoluzione” del 68, ha avuto l’opportunità di
abbandonare la schiavitù della terra e scegliere il lavoro in fabbrica e questo
è frutto del boom economico, non del 68. Devo la mia condizione di privilegio,
quella di poter fare un lavoro che amo e con cui non mi sporco le mani né mi
rompo le ossa, alla lungimiranza di mio padre e alla fatica di mia madre e
penso che sia così per tutti i nati della mia generazione. Non è grazie al 68
se io ogni mattina salgo in cattedra e la spinta ideale che anima il mio operato
non la devo ai “maestri” sessantottini, quanto semmai al mio anziano professore
di greco o a Don Milani, il quale, checché ne dicano i sessantottini, non era
certo uno di loro, nonostante i suoi detrattori lo annoverino fra i profeti di
sventura del 68 scolastico.
Se le lotte del 68 hanno accelerato l’ascensore sociale, questo
ascensore a un certo punto si è bloccato se consideriamo le mancanze di
prospettive lavorative dei giovani d’oggi nel nostro Paese che li spingono ad
emigrare. Qualcuno dei presenti mi dice che è colpa di Renzi. Colpa di Renzi un
fenomeno epocale?!
Nell’intervallo di questa preziosa serata mi siedo accanto a
Walter e bevo un bicchiere di lambrusco con lui. Gli dico che adesso che è
morto Roth, mi è rimasto solo lui. Sorride, è di buon umore e non si nega
quando gli chiedo di dedicare il suo Resistere
non serve a niente a mia figlia che di quel che lui narra in quel libro è
appassionata. Poi rifletto sul fatto che dedicare un libro con un titolo tanto cinico
a una ragazza così piena di ideali forse è un po’ una resa. La verità è che io,
di testa, sono d’accordo con Walter, che resistere non serve a niente, in
quest’epoca in cui, come dice lui, quasi ci si sente in colpa per aver
studiato. Moralmente però non posso permettermelo, perché sono una prof e sono
una mamma di una giovane diciannovenne che aspira a cambiare il mondo con la
bontà dei suoi ideali. Non posso quindi rinunciare a lottare, con tutti i mezzi
che ho, perché resistere è oggi praticare la speranza, quella che i giovani del
68, tutti intenti a crogiolarsi negli esiti positivi delle loro battaglie
personali, hanno permesso che fosse in parte negata a me e ai giovani delle generazioni
successive.
In viaggio nell’Italia fascista nel 1935, Virginia Woolf
scrive in una lettera a un’amica: “Tutto è a pezzi e pieno di melodie slegate”.
Contro lo stridore delle parole, la cacofonia del linguaggio violento,
altisonante della propaganda fascista, Virginia esorta a lottare con la mente,
con le parole, perché la retorica e la propaganda sono i metodi di Mussolini.
Per questo ho scritto e condivido queste riflessioni, perché
sono responsabile di una figlia e degli studenti che mi sono affidati, anche se
Walter lo scrittore, Michele che ci accompagna in Bosnia, profeti che ammiro
per il loro sguardo lucido sulla contemporaneità, nutrono più di un dubbio
sull’efficacia della mia lotta di resistenza.
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