domenica 7 ottobre 2018

IL POETA E LO SCRITTORE: IL 68 AL DRAMA TEATRO

Preziosa serata quella che ci ha offerto ieri Drama Teatro nell’ambito della rassegna sul 68. Il 68 e la letteratura, un incontro con due eminenti letterati modenesi, Walter Siti scrittore e Alberto Bertoni poeta, entrambi dottissimi professori di letteratura italiana all’università, Walter in pensione, Alberto ancora attivo. Walter cita gli eventi caratterizzanti quel mitico anno e i libri più importanti che furono pubblicati e butta lì alcuni spunti di riflessione sull’eredità del 68 con quella lungimiranza interpretativa che solo possiedono i veri sapienti. Alberto ci fa una condensatissima e appassionata lezione sulla poesia, prima, attraverso e dopo il 68. Entrambi con un certo sguardo amaro sui tempi correnti.
Starei ad ascoltarli per ore perché sono in presenza di due monumenti. Uno è il maggior scrittore italiano vivente e ammetto che sono talmente affascinata dalla sua scrittura che potrebbe dire qualunque cagata che l’accoglierei con un’apertura mentale che raramente riservo agli intellettuali che ascolto. L’altro è un vero poeta e cultore della poesia, la musa che più amo e desidero e che più si nega alla mia scrittura.
Che fine ha fatto la poesia dopo il 68? In questa delegittimazione dell’intellettuale colto e non militante, anche il sublime è andato sotto processo e persino Montale, dice Bertoni, con Satura,  “merdifica” la sua poesia perché non sa più cosa dire. Su questo, sulla “merdificazione” del linguaggio poetico, su uno sguardo ripiegato sul reale che si sente in dovere di rinunciare alla complessità della forma, sono d’accordo entrambi, il poeta e lo scrittore. C’è quindi una rottura nel linguaggio, anticipata dalla neoavanguardia del Gruppo ‘63, la stessa che ha creato, secondo Bertoni, quella frattura fra produzione e ricezione che ancora devasta la poesia: in Italia ci sono un milione e mezzo di persone che dichiarano di avere nel cassetto o dato alle stampe qualche verso di “poesia”, ma sono al massimo 2.000 i lettori che comprano libri di poesia.
Devo dire che la cosa non mi stupisce: in un Paese dove tutti si improvvisano specialisti di tutto e dove essere colti, avere studiato, è ormai, nel sentire comune, un disvalore o comunque qualcosa che non merita nessuna considerazione, dove anche il più ignorante e sprovveduto può ambire a diventare ministro, non sorprende che chiunque possa ritenersi in grado di scrivere poesia.
Mi sale una certa irritazione se penso alla difficoltà che provo quando cerco di scrivere un solo verso poetico, all’impressione che ho di riuscire solamente a sfiorarla questa musa ritrosa e permalosa che con fatica si lascia avvicinare, e al fatto che invece sono circondata da una massa di narcisi ignoranti e inconsapevoli che si autodefiniscono poeti solo perché sanno mettere insieme qualche pensierino sulle emozioni, altra categoria abusata del nostro tempo.
Mi sale l’irritazione quando nel dibattito che segue sento diversi nostalgici incanutiti esaltare le “conquiste” del loro 68 o, meglio, del 77: la rivoluzione femminista, la rivoluzione sessuale, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, l’antiautoritarismo. Mi sale l’irritazione perché penso che io, che sono entrata al liceo Muratori nel 1980, mi sono beccata in pieno tutta l’onda reazionaria provocata dalle proteste antiautoritaristiche, antibaronali, antielitarie di questi giovani rivoluzionari che mi hanno preceduto di una generazione. Il liceo è stato per me un lager perché l’eco delle loro minacce, delle loro violenze, era ancora ben presente nelle orecchie delle vecchie cariatidi che avevano sentito tremare la loro cattedra negli anni della contestazione ed esse reagirono alla paura restaurando l’ancien régime.

Walter ci dice, riprendendo un concetto marxiano, che un movimento di protesta non porta a nulla se incide solamente sulla vita del singolo ma non incide sulle strutture. Di quella parola tanto cara ai sessantottini, “rivoluzione”, del lessico che ad essa si richiamava, “cambiamento”, “rivolta”, “cambiare tutto” e delle sue derivazioni ideologiche, Walter Siti dice che oggi si sono appropriati Salvini e Di Maio, i quali però usano sì il linguaggio della rivoluzione, ma la vera rivoluzione – quella contro la finanza che regola il mondo- non la fanno. Si sono impadroniti della parola rivoluzione, ma appena i mercati ci porteranno sull’orlo del baratro, i nostri due spavaldi vicepremier si ritireranno con la coda tra le gambe come tutti i loro predecessori o nel baratro ci faranno affondare insieme a loro. Lui è Siti, il premio Strega per Resistere non serve a niente, romanzo che ci svela l’agghiacciante cinismo con cui l’alta finanza regola le sorti del mondo e contro cui siamo tutti inermi.

Siti conclude il suo intervento dicendo che l’unica eredità, l’unica rivoluzione del 68 riuscita in Italia è la rivoluzione femminista. E anche su questo io ho dei dubbi se considero che il modello femminile che la cultura di massa propone oggi alle mie studentesse è Chiara Ferragni o, in politica, la Boschi che finisce sulla copertina di Maxim. Ho dei dubbi se penso a Verona città che rigetta ufficialmente l’aborto o alla piaga dei femminicidi che affligge il nostro Paese.
L’anno scorso, quando insegnavo in una scuola con un’utenza quasi esclusivamente maschile, avvertivo il dovere morale di educare ragazzi che diventino futuri uomini che rispettano le donne; quest’anno, in un liceo frequentato per due terzi da ragazze, sento il dovere di educare ragazze che diventino future donne che si fanno rispettare dai maschi. La rivoluzione femminista non è finita e il patriarcato gioca ancora un ruolo importante sulla condizione di minorità femminile, sulle discriminazioni di cui le donne sono ancora oggetto, nella gestione del potere, nelle guerre che ancora oggi gli uomini combattono in giro per il mondo.
Che effetti liberatori ha avuto il 68 sulle mie studentesse confuse e apparentemente emancipate? Si tratta di figlie di madri veramente liberate o solamente emancipate nei diritti sulla carta? Davvero in Italia il modello femminile che si è imposto è quello predicato dalle pasionarie del 68 e del 77? Walter ammette che, in effetti, anche nelle università occupate del 68 le ragazze erano considerate gli angeli del ciclostile: i maschi pensavano, le femmine replicavano.

Mi chiedo poi se l’attuale esaltazione dell’incompetenza al potere, la delegittimazione del sapere che porta i nostri governanti e i loro elettori a denigrare esperti, scienziati, studiosi, non sia anch’essa un po’ frutto dell’onda lunga del 68, della lotta contro chi sedeva in cattedra. Un odio per le cattedre che squalifica la classe docente, il sapere, tutto ciò che è cultura, e che oggi si affaccia dal balcone di Palazzo Chigi. Walter è d’accordo con me, meno lo sono alcuni amici ex-settantasettini presenti.
Qualcuno mi dice che la scuola come ascensore sociale è frutto del 68. Mah… Se io non mi spezzo la schiena nei campi è perché mio nonno mezzadro, anni prima della “rivoluzione” del 68, ha avuto l’opportunità di abbandonare la schiavitù della terra e scegliere il lavoro in fabbrica e questo è frutto del boom economico, non del 68. Devo la mia condizione di privilegio, quella di poter fare un lavoro che amo e con cui non mi sporco le mani né mi rompo le ossa, alla lungimiranza di mio padre e alla fatica di mia madre e penso che sia così per tutti i nati della mia generazione. Non è grazie al 68 se io ogni mattina salgo in cattedra e la spinta ideale che anima il mio operato non la devo ai “maestri” sessantottini, quanto semmai al mio anziano professore di greco o a Don Milani, il quale, checché ne dicano i sessantottini, non era certo uno di loro, nonostante i suoi detrattori lo annoverino fra i profeti di sventura del 68 scolastico.
Se le lotte del 68 hanno accelerato l’ascensore sociale, questo ascensore a un certo punto si è bloccato se consideriamo le mancanze di prospettive lavorative dei giovani d’oggi nel nostro Paese che li spingono ad emigrare. Qualcuno dei presenti mi dice che è colpa di Renzi. Colpa di Renzi un fenomeno epocale?!

Nell’intervallo di questa preziosa serata mi siedo accanto a Walter e bevo un bicchiere di lambrusco con lui. Gli dico che adesso che è morto Roth, mi è rimasto solo lui. Sorride, è di buon umore e non si nega quando gli chiedo di dedicare il suo Resistere non serve a niente a mia figlia che di quel che lui narra in quel libro è appassionata. Poi rifletto sul fatto che dedicare un libro con un titolo tanto cinico a una ragazza così piena di ideali forse è un po’ una resa. La verità è che io, di testa, sono d’accordo con Walter, che resistere non serve a niente, in quest’epoca in cui, come dice lui, quasi ci si sente in colpa per aver studiato. Moralmente però non posso permettermelo, perché sono una prof e sono una mamma di una giovane diciannovenne che aspira a cambiare il mondo con la bontà dei suoi ideali. Non posso quindi rinunciare a lottare, con tutti i mezzi che ho, perché resistere è oggi praticare la speranza, quella che i giovani del 68, tutti intenti a crogiolarsi negli esiti positivi delle loro battaglie personali, hanno permesso che fosse in parte negata a me e ai giovani delle generazioni successive.
In viaggio nell’Italia fascista nel 1935, Virginia Woolf scrive in una lettera a un’amica: “Tutto è a pezzi e pieno di melodie slegate”. Contro lo stridore delle parole, la cacofonia del linguaggio violento, altisonante della propaganda fascista, Virginia esorta a lottare con la mente, con le parole, perché la retorica e la propaganda sono i metodi di Mussolini.
Per questo ho scritto e condivido queste riflessioni, perché sono responsabile di una figlia e degli studenti che mi sono affidati, anche se Walter lo scrittore, Michele che ci accompagna in Bosnia, profeti che ammiro per il loro sguardo lucido sulla contemporaneità, nutrono più di un dubbio sull’efficacia della mia lotta di resistenza.


Nessun commento:

Posta un commento